martedì 25 giugno 2013

IL MANUALE LESSICOGRAFICO DELLA PARLATA ALBANESE DI ACQUAFORMOSA di Nando Elmo

da Nando Elmo (Note) Martedì 25 giugno 2013 alle ore 23.30

Ora le mie amiche di Acquaformosa, che si ostinano a scrivere arberisht in maniera inadeguata su FB, non hanno più scusanti.
Da qualche giorno è uscito in Albania, ma verrà distribuito anche in Italia, si spera, per volontà dei cosiddetti  difensori delle nostre tradizioni, questo manuale lessicografico, questo vocabolario della parlata di Acquaformosa, del nostro compaesano Giosafatte Capparelli, Malcori, (detto, affettuosamente, Tucci).
Questo strumento potrebbe dare ai volenterosi – ma sono più numerose le volenterose – che vogliano esprimersi correttamente nella lingua degli avi, un valido aiuto.
Capisco: la lingua materna è più consona ai sentimenti, dalle affettuosità alle recriminazioni, alle volgarità (sono esse più corpose, più sanguigne, dette alla paesana). Ma allora perché non scriverla correttamente?
 Vedo spesso su FB frasi che vorrebbero essere arberische e tali non sono perché scritte adattando la grafia italiana a fonemi, che nella nostra lingua nazionale non esistono : “Thë, dhë, hjë, që ecc.. nessuno sa pronunciarle in italiano, come scrivereste la famosa “Qiqir” con cui i civitioti smascherano i latini durante la Vallja?
Basti, a questo proposito, considerare che l’alfabeto italiano ha solo ventuno segni (anche se la pronuncia ne prevedrebbe una manciata in più, ma tant’è) mentre l’alfabeto arberisco ne ha trentasei, uno per ogni fonema (approssimativamente, ahimè, anche in questa sovrabbondanza – sentite parlare uno sqipetaro del nord e poi ditemi).  
Per capirci: l’alfabeto arberisco fa differenza tra la esse sorda (di “sono”) e la esse sonora (di “chiesa”), tra la zeta sorda ( di “pazzo”) e la zeta sonora (di “zebra”) per cui se volessimo scrivere l’italiano come lo pronunciamo, facendoci aiutare dall’alfabeto albanese più ricco del nostro, dovremmo scrivere  “xio”,  “kieza”, “xebra”, “paco”, per zio, chiesa, zebra, pazzo. Ma l’italiano non si cura di queste varianti.
Questo è dovuto, in ogni caso, al fatto che c’è differenza tra la lingua parlata, pronunciata, e la lingua scritta.
La lingua scritta, proprio perché scritta, tende a sclerotizzarsi, mentre la parlata evolve – si pensi al francese “roi”: si scrive “roi”, appunto, (come scrivono e pronunciano ancora oggi gli occitani) e si pronuncia “ruà”. In piemontese, che è simile all’occitano, di dice “effroi” ciò che in francese si dice “effruà”. Si pensi poi  all’inglese che ha modi diversi per pronunciare la stessa vocale, in contesti diversi, e così via.
L’alfabeto albanese che usiamo noi scrittori arbëreshë ha il vantaggio di essere recente: è stato stabilito appena il secolo scorso. È stato pensato in modo che  ogni grafema (il segno alfabetico scritto) corrispondesse a un fonema (un suono) della lingua shqipetara.
Noi arbëreshë, oggi, ce lo troviamo bell’e pronto, per il novanta per cento, adatto  alle nostre esigenze; per tanto chi lo conosce lo usa con piacere perché funziona e non crea imbarazzanti problemi: per esempio, voi di FB, come scrivereste, con l’alfabeto italiano, “gozhdë” (chiodo)?
E  tuttavia quello che utilizziamo è un modello astratto come tutti gli strumenti che devono tenere conto della generalità.  È chiaro che in questo modello astratto non possano trovarsi le peculiarità locali: per esempio, non c’è un grafema (il segno scritto) che risponda al fonema (il suono pronunciato) della doppia “elle” così come viene pronunciata a Piana degli Albanesi o a san Nicola dell’Alto o a Carfizi - una “g” dura, molto palatalizzata che non trova corrispondenza in italiano: come fanno quelli di Carfizi su FB?
La  grammatica generale (ortografia, ortoepia, morfologia) non tiene conto delle particolarità locali.
Così ordinerà di scrivere: “jam e bënj” e non “jam e bonj” come diceva don Fatuccio, e dicono alcuni giovani acquaformositani.
Don Fatuccio provocò, mentre confondeva la sua parlata con la parlata “generale di Acquaformosa, non pochi guai come informatore del tedesco Rohr – poi puntualmente corretti dalla linguista acquaformositana Filomena Raimondo in un suo lavoro.
E non dirà, la grammatica generale,  di scrivere: “jam e bunj” come dicono e scrivono a Piana degli Albanesi – è chiaro che in una commedia di Zef Skiro di Maxho che ricalca la parlata locale troverete scritto legittimamente: “jam e bunj”.
È evidente che una grammatica non può inseguire la lectio localis o particularis. Ma è chiaro, anche, che le grammatiche, che vogliano essere prescrittive, verranno sempre scavalcate dall’uso.  È  che appena scritti grammatiche e vocabolari, come le leggi, son già vecchi, ma tant’è …
Così a suo tempo ci sembrò uno sproposito quando un professore universitario scrisse che l’Albanese è facile perché si scrive così come si pronuncia e viceversa. A tutte le lingue capita questo; basta sapere che fonema corrisponde al grafema, e viceversa, e tout va. Se so che “oi” in francese si pronuncia “uà” che problema c’è? Non c’è corrispondenza naturale tra fonema e grafema - si tratta solo di una convezione tra gli utenti di quel sistema linguistico.
 E tuttavia abbiamo altre volte rilevato che spesso i giovani italiani, forse per modifiche naturali della glottide tendono a dire “ballo” al posto di “bello”, allargando spropositatamente la “e”.
 Ora nessuno si sogna di scrivere “ballo” perché così pronuncia “bello”. La lingua scritta non va appresso alla lingua parlata.
Come dicevo più su, ciò che in francese si dice “ruà” si scrive “roi” perché una volta nella lingua d’Oc tra “o” e “i” c’era iato; poi con l’uso, soprattutto parigino, si è cominciato a pronunciare il  dittongo “uà” e ciò che si continuava a scrivere “oi” si è pronunciato “ruà”.
Lo scritto, proprio perché è scritto (scripta manent) è più lento nel registrare l’evoluzione fonetica.
Così nessuno vieta che si continui, per omaggio alla tradizione, nella grammatica prescrittiva dei professori, a scrivere “ësht” e a pronunziare, come fanno molti ad Acquaformosa, “osht”; o scrivere “ësht” e pronunziare “isht” come a Piana degli Albanesi. Così nessuno vieterà agli acquaformositani e ai lungresi di pronunciare “pir” ciò che per carità linguistica scriveranno “për”.
A Lungro c’è la tendenza a trasformare in alcuni contesti “sh” in “ç”: “do të viç” invece di “do të vish” – oppure “ çë do të diç?” (che vuoi sapere?) invece di “çë do të dish?”. Queste varianti accelerano il loro passo quando si ha a che fare con un sistema di scrittura non garantito da una norma – buona tuttavia per  i bacchettoni d’ogni genere, dai maestri elementari alle università – che ignorano, o tendono ad ignorare che è l’uso che fa la lingua, la quale come fenomeno storico e non metafisico, non sta mai ferma.
E tuttavia siccome dobbiamo parlare, comunicare con i più è bene che sappiamo qual è l’uso “diffuso e generale” di una parola: se i più dicono e scrivono “ësht” è bene con questo uso “allargato,medio e perlopiù”, fare i conti.
Il nostro professore se fosse stato più avvertito in linguistica generale, e avesse avuto il senso storico, non avrebbe potuto affermare che l’albanese si scrive così come si pronuncia o viceversa, perché già oggi dopo i settant’anni della mia vita posso assicurare che scrivo in una maniera ciò che sento pronunciare in un’ altra.
Non che io creda nell’ordine, sono un anarchico, ma questo “Doracak”, questo Manuale di Giosafatte Capparelli (chiamiamolo “Malcori”, per distinguerlo dall’altro omonimo), viene a porre “ordine” nelle varianti personali (legittime) e ci restituisce quella lingua che “mediamente e perlopiù” si parlava ad Acquaformosa. Quando? Cinquanta, settant’anni fa quando la televisione non ci aveva omologati, trasformandoci in analfabeti in italiano: nella propria lingua nessuno è analfabeta, recita un adagio di linguistica generale. Oggi, morta la lingua materna, mi sa che siamo analfabeti in tutt’e due le lingue tra le quali la storia ci ha buttati.
E tuttavia io quell’ arbëresh oggi parlo, con Lillinin e Llupietrit, che ha qualche anno più di me, e con Gesualdin e qualche altro superstite di quei tempi, come mia cugina Teresa.

Il Manuale di Capparelli ha poi un pregio, quello di fornire finalmente una testimonianza filologica importante, l’apparentamento dell’arbëresh col calabrese e siccome i fenomeni storici non sono mai fuori di un contesto, questa ricerca filologica mette nella sua storicità il fenomeno della cultura arberisca.
Certo sarebbe stato opportuno fare una ricerca anche sulla parentela col greco – mi pare, dalle poche notizie che ho, che neanche Rupprecht Rohr lo faccia in maniera adeguata.
Sarebbe stato un dovuto omaggio alle nostre radici greche.
È assodato che le nostre comunità vengano dalla Grecia ortodossa. Solo una storia “tradìta” può farci venire dall’Albania veneto-cattolica.
Una storia “tradìta”, certo.
 Ma quella “tràdita” che ci fa piangere la Morea (oj e bukura Morè) e ci fa ancora oggi pregare in greco, la dice lunga sulle nostre origini greche e ortodosse.
Spero che un qualche giovane studioso voglia impegnarsi in un simile lavoro.
So che a Maqi un tale tentativo di storia “vera” è stato condotto da Josif Kosentino, ma non so come sia finita.
Tuttavia mi piace mettere qui di seguito una manciata di termini che derivano dal greco per stimolare in qualche giovane una curiosità filologica:
-          Diovas – diavas- leggo,  greco Diabasis, (da diabaino), nella pronuncia moderna: Diavasis (da Diaveno) = un trapassare, uno scorrere, una scorsa - in italiano diciamo “dare una scorsa a un libro”)
-          Hjiromer – lardo- greco Choirou merís grec. clas., mod. chiru meris – pezzo di maiale.
-          Halkomë – contenitore di rame - greco Chalkós = Rame, bronzo.
-          Kakavë – Recipiente per la lavorazione del latte – Greco omerico = Kakabe, mod. kakave.
-          Qyenj – mettere incinta, nella accezione volgare di “fottere”: ec u qyej “vai a farti fottere” – greco Kyo = sono pregnante, incinta, concepisco. Nella liturgia spesso troviamo l’espressione “theon logon kyisasa” -  “tu che sei rimasta incinta del verbo divino”.
-          Helq – tiro, isso – greco Helko – tirare – in greco moderno l’Helkester è l’ascensore.
-          Hjiropane – asciugamano, straccio – greco Cheiropane, mod. Chiropani, panno (pani) per le mani (chir, os).
-          Zienj- bollire- greco Zeo, bollire, da cui en/zima (che bolle dentro)
-          Hjetë – treccia – greco clas Chaite, mod. Hjeti = capigliatura, criniera.  
-          Pallac  - fango – greco Plasso = inzaccherare
-          Qanj  (klanj) – piangere – greco clas. Klaio,  mod. kleo)
-          Ter – asciugo -  greco cl. Xero.
-          Kalidhe – capanna - greco Kalidion, kalià- ados, ma anche in greco bizantino: kaliva - era famoso l’eremita kausokaliva - che bruciava (kauso) la sua capanna (kaliva) ogni volta che veniva scoperta la sua ubicazione.
Sono le prime parole che mi vengono in mente, mi fermo qui. Né sarebbe il caso di andare oltre per il carattere del presente scritto.
Tuttavia non posso non ricordare che la Calabria fu Magna Grecia prima e Impero Bizantino poi. E  che il greco era ancora la lingua  di S. Nilo e S. Bartolomeo rossanesi dell’anno mille.
E dunque le tracce del greco sono evidenti nel dialetto calabrese  soprattutto quando si tratta di parole che riguardano la pastorizia e il lavoro dei campi (ma si pensi ancora a ’ndrangheta, a ‘nduja).
Ma non è compito mio entrare in questi discorsi che richiedono altra competenza.
Torno al manuale di Giosafatte Capparelli per chiedere che gli sia data l’attenzione che merita e che coloro che s’interessano di tradizioni, di costume, di Vallje, di carnevali vari, di canti tradizionali e che versano lacrimucce sul passato glorioso, quand’eravamo risorgimentali, massoni, garibaldini e trullalà ecc… e che sono solleticati dalla voglia di scrivere arbërisht, ancorché su Face Book, vogliano comprarlo per documentarsi sulla ortografia e sulla ortoepia della nostra lingua, la quale è ancora – mi pare – nei volenterosi, come in Giosafatte Capparelli, miracolosamente  intatta.
Inviterei anche Giosafatte a scrivere una grammatica, per conservare (scripta manent) quel passato senza il  quale, come dice la retorica dei pigramente seduti sulla conservazione di non so che, non c’è futuro.
Mi pare di dover ancora aggiungere a onore di Giosafatte che egli non è un professore, non un docente, non un cattedratico. E tuttavia si è messo in un lavoro che quei professori, quei cattedratici non si sono mai sognati di fare (chissà che cosa insegnano, e su che cosa fanno le loro ricerche). E tuttavia Egli ha svolto il suo lavoro da competente. A maggior ragione merita attenzione: chi ha lavorato, con tanto amore, e solo per amore, aspetta premio.

Nessun commento: