giovedì 11 agosto 2011

Con grande entusiamo ricevo dal mio carissimo amico prof. Francesco Marchianò, ka Spixana, e pubblico.


LA FINE DI UN’ETNIA IN SEI EPISODI
di Francesco Marchianò
Questi brevi racconti sono il frutto di circa un decennio di attività che ho prestato, come docente e come operatore culturale, in vari centri calabresi e albanofoni della vasta provincia di Cosenza.  Le vicende che mi sono realmente accadute, dal 1996 a tutto il febbraio 2006, hanno come filo conduttore il piccolo mondo arbëresh che sta per scomparire, a mio avviso senza possibilità di rinascita, inghiottito dal vortice della globalizzazione, dall’indifferenza delle istituzioni e dalla cronica rassegnazione caratterizzante le popolazioni meridionali, di cui noi Arbëreshë facciamo pienamente parte!
Isolamento, decremento demografico, mancanza di stimoli culturali e, soprattutto, mancanza di lavoro, con conseguente nuova emigrazione, stanno prostrando e spopolando tutti i centri albanofoni ed in modo particolare i paesini di montagna e alta collina, già penalizzati dall’infelice posizione geografica in cui si trovano. 
Alla luce di quanto detto, penso che oggi la priorità assoluta sia quella di salvare l’Uomo in queste realtà garantendogli la dignità di un lavoro, motore primario dell’esistenza, più che a litigare, per esempio, se insegnare o usare l’arbërisht o lo shqip nelle scuole, nelle riviste o conferenze! (F.M.)
1) Una mattina, in una scuola media di un popoloso centro della provincia di Cosenza, mi tocca sostituire un collega. Durante l’appello mi soffermo davanti ad un nominativo albanese, Gj. Ervin:
-         A jeni shqiptar? – chiedo, spinto dal richiamo di sangue.
-         Cc’ha rittu?- mi risponde in dialetto calabrese.
-         Flitni shqip?- insisto, stupito.
-         Nun ti capisciu – Lui, di rimando.
Incollerito da tanta insolenza, invito perentoriamente il giovane albanese a rispondere in lingua italiana per poi avviare un colloquio amichevole con lui e scoprire che è arrivato pochi anni fa da Tirana con la famiglia.
Dal dialogo è emerso che Ervin ignora completamente la presenza degli  Arbëreshë (Albanesi d’Italia) nella provincia di Cosenza, ma il fatto più grave è che anche i suoi compagni di classe calabresi nulla sanno dell’esistenza di paesi albanofoni, a pochi chilometri dalla loro città, ed inoltre alcuni di loro non sanno di avere cognomi denotanti  origini albanesi perché i nonni ed i genitori non gli hanno mai raccontato di provenire da Lungro, S.Giorgio, Cerzeto, …..
Se per l’alunno albanese Ervin il termine Arbëresh non riveste alcun significato, anche il termine Ghiegghiu, con cui una volta le popolazioni locali apostrofavano gli Arbëreshë e che rimandava anche ad un famigerato motto, ai giovani calabresi, ormai non parlanti più il proprio dialetto, non dice proprio nulla!
2) Tempo fa un amico artista, che doveva partecipare ad un concorso di pittura, invitò me e Pino A. per fargli compagnia a S. Cosmo Albanese, paese da lui scelto per schizzare qualche antica gjitonia (vicinato).
Nonostante fosse un bel pomeriggio di luglio, il paesino sembrava completamente spopolato, così come lo erano i suoi due o tre bar del centro storico. Questo senso di vuoto si acuiva man mano che ci addentravamo nei vicoli e diventava ancora più angosciante per la mancanza di negozi ed altri esercizi (barbiere, lavanderia, edicola,…), e in me ancor di più nel vedere chiuso anche il negozietto del carissimo amico Tuturo, una specie di bazar dove si poteva trovare di tutto.
Scelto il posto, il pittore piazzò il cavalletto e cominciò ad abbozzare qualche schizzo.
Dopo alcuni minuti arrivarono quattro o cinque monelli che, dopo aver curiosato attorno al cavalletto, cominciarono a giocare al pallone.
Durante una pausa si avvicinarono:
-         Si ju e thonë? – chiedemmo loro, ottenendo il silenzio come risposta!
-         Si ju e thonë? E kini o ‘ng e kini nj’ëmër? – insistemmo.
Con i loro occhietti vispi ed intelligenti si guardavano fra loro facendo spallucce e ridendo.
- Nëng mund ju përgjigjen se nëng fjasën arbërisht. Dica janë edhe të ghuaj ç’vinjën ka malet e Akrës e tjerët nëng i mësuan të fjasën gjughën tone! - intervenne un’anziana donna intenta a sferruzzare dietro l’uscio, dopo aver sentito le nostre domande.
Ella continuò sconsolata a raccontare che Tuturo era scomparso da qualche tempo e che i giovani erano andati a lavorare al Nord o all’estero mentre altri si erano stabilmente trasferiti a Cantinella o Corigliano, per cui a Strighàr erano rimasti soltanto i vecchi.
La gentilezza dell’anziana donna fu tale che colsi l’occasione per chiedere di alcuni miei ex alunni che avevano studiato al Liceo di S. Demetrio Corone e nella scuola media di Vaccarizzo: seppi così che alcuni si erano laureati, altri sistemati diversamente ma nessuno di loro sarebbe tornato nel paese se non per il periodo estivo.
La sera ce ne andammo dopo aver visitato lo stupendo Santuario dei SS. Cosma e Damiano ed aver reso omaggio al busto del grande poeta arbëresh Zef Serembe (1844-1900).
3) Con la mia compagna Mariella una mattina di maggio decidemmo di andare a Macchia Albanese, paese di nascita di mio nonno.
Lasciata S. Demetrio percorremmo la strada, che la collega alla citata frazione, in mezzo ad un’esplosione di fiori e tripudio di profumi della lussureggiante macchia mediterranea che la lambisce da ambo i lati.
Dopo aver parcheggiato l’auto all’ingresso del paese non abbiamo potuto visitare la chiesa di S. Maria di Costantinopoli, dove riposano le spoglie del nostro vate Girolamo De Rada (1814-1903), perché inagibile per il terremoto del 1997.
Con Mariella mi avviai verso la via principale indicandole la casa di De Rada, la famosa pietra che il Vate usava per salire sul mulo, la casa del letterato Michele Marchianò e poi tante targhette di citofono stampigliate col mio cognome.
Nonostante fosse domenica, la stretta strada principale che attraversa tutto il paese era vuota mentre solamente l’unico negozietto di generi alimentari dava segni di vita: qualche anziana donna faceva tardivi acquisti prima di mezzogiorno.  
Qualcuno si affacciava distrattamente dalla porta mentre qualcun altro ci chiedeva:
-         Kush jini? Ka jin’e vini? Ç’erdhit e bëtë këtu ç’nëng qindroi mosnjeri?
Dopo aver fatto presente che ero originario del luogo, chiedevo se conoscessero miei amici ed alunni. Ed anche qui la stessa litania di S. Cosmo: Luciana, Anna, Ariosto, Domenica, … erano tutti andati a lavorare al Nord.
Ce ne andammo mentre nella piazzetta davanti alla chiesa due vecchietti godevano il tepore del sole primaverile e quattro bambine osservavano curiose ed impazienti un marocchino che allestiva una misera bancarella.
4) Giungo davanti alla scuola media di S. Caterina Albanese (Picilìa) un bel pomeriggio di giugno con un amico dopo aver percorso una strada a tratti disagevole.
La mia presenza in questo piccolo centro era dovuta ad un progetto del C. T. P. di Malvito che affidava dei corsi di alfabetizzazione arbëreshe, da tenere a Spezzano Albanese e S. Caterina Albanese, rispettivamente a me ed al caro amico Ernesto Tocci. La programmazione prevedeva uno scambio di sei ore dei docenti nelle due sedi.
Nella scuola ad attendermi c’era il personale di turno, poi man mano cominciarono ad arrivare i corsisti che, per la maggior parte, si rivelarono essere insegnanti. Dopo le dovute presentazioni cominciai a parlare del mio paese, delle tradizioni, di rituali, storia, etc… suscitando l’interesse dei corsisti e dei curiosi, che nelle due ore aumentarono di numero.
Il secondo giorno, dedicato alla storia e costumanze di S. Caterina, ho constato con amarezza che nel paese che aveva dato i natali al primo drammaturgo albanese, p. Francesco Antonio Santori (1819-1894), la lingua è parlata solo da un ristrettissimo numero di anziani mentre le giovani generazioni ormai si esprimono solo negli idiomi calabrese ed italiano.
 A causa dell’isolamento e della mancanza di lavoro, anche questo paesino di montagna va man mano spopolandosi a vantaggio dei grossi centri vicini o delle frazioni, non isolate, dove esistono piccole realtà economiche più prospere, come Pianette.
L’ultimo giorno si verificò il pienone, con corsisti e curiosi, forse perché avevo anticipato che avremmo letto e commentato insieme le bellissime rapsodie di Kostandini e Jurëndina e di Kostandini vogëlith.
La lettura, da me effettuata, in alcuni presenti suscitò delle emozioni in quanto richiamava alla memoria di tanti anziani e meno giovani termini desueti ed espressioni scomparse e, soprattutto, note di colore che appartengono ormai ad un lontanissimo passato.
Terminato il corso gli amici di Picilìa mi salutarono con caloroso affetto mentre uno sparuto, rumoroso ed indifferente gruppo di giovani giocava a calcetto.
5) Quando esco dall’abitazione dei miei genitori per rincasare volgo sempre uno sguardo nel vicoletto che mi ha visto crescere assieme ad una quarantina di compagni della gjitonia che, fino a qualche lustro fa, risuonava ancora delle voci di tanti bambini.
Ora in questa strada alcune case sono disabitate, altre sono abitate da anziani o meno giovani, mentre i giovanissimi si contano sulle punta delle dita. Ed i bambini? Beh, ora c’è solo una mia cuginetta, una vispa bambolina di circa tre anni nata da genitori che parlano l’arbërisht.
Spesso la nonna la porta nel nostro vicinato per farle fare una passeggiata e quando ogni tanto cerca di sfuggire alla vigilanza:
- Dove vai? Stai attenta! – le grida con apprensione la nonna.
- Cjè Marì, pse vajzën ’ng e mbësuat t’ fjas si na? - chiedo con un tono volutamente provocatorio, nonostante io conosca la risposta.
- E jore! Ç’i bizënjarën kjo gjuhë? - risponde lei infastidita e convinta dell’affermazione.
Dato che i miei genitori sono avanti con gli anni, spesso sono oggetto di visita di parenti. Fra questi c’è una giovane cugina con due figli frequentanti le scuole elementari ed ai quali si rivolge rigorosamente in italiano, mentre al marito ed ai conoscenti in arbërisht!
-         Marì, thuajëm, pse i fjet lëtisht këtire?
-         Pse kështu gjënden më mirë te skolla, però vajza vete te korsi di albaneze!
E mentre lei così pontifica, penso a quei pochi validi, e spero motivati, colleghi che insegnano questa bistrattata lingua albanese, nelle scuole elementari e medie, e non so perché mi vengono in mente Don Chisciotte con i suoi mulini a vento!
6) Qualche sera fa siedo con Mariella davanti ad un bar a Rende. Da un negozio esce una ragazza che, appena mi nota, viene a salutarmi. È stata mia alunna in un paese arbëresh, si è laureata da pochi anni in lettere albanesi ed ora è operatrice in uno sportello linguistico.
- Beh, che si dice di questi sportelli linguistici? – le chiedo con curiosità.
- E che si deve dire, professò. C’è una confusione! Non esiste un progetto comune a tutti e quindi uno sportello allestisce un sito internet, un altro realizza un calendario, altri ancora catalogano libri, svolgono ricerche di archivio,…Ma la nota più dolente è la totale mancanza contatti con gli abitanti del posto, scambi con gli esperti, i circoli culturali esistenti. Per certi aspetti alla gente del posto sembriamo dei marziani tanto che ci chiedono che cosa facciamo noi al comune! – risponde, ridendo su quest’ultima battuta.
- Ma non dovevate tutelare la minoranza con scritte bilingui, traduzioni, raccolta del patrimonio orale e materiale delle comunità albanofone? – insisto.
- Professò, secondo me la legge è nata sbagliata e gli enti continuano a sbagliare. Nessuno controlla le attività degli sportelli! Ma c’è di più! Piano piano il governo sta tagliando i fondi e l’anno prossimo non solo alcuni di noi non avranno più la riconferma dell’incarico, quando nel futuro sarà ancora peggio! Inoltre ci sarebbe da ridire anche sui criteri di reclutamento di alcuni sportellisti che non parlano, o non conoscono affatto, né l’arbërisht e né lo shqip! Basta leggere i madornali e spesso esilaranti errori che si possono riscontrare in quel poco che è stato prodotto!
- Guarda, sinceramente ignoro la realtà degli sportelli linguistici e di altri organismi sorti in base alla legge 482/1999! Però quello che mi riferisci mi sembra tutto così strano! – rispondo palesemente stupito.
- Professò, per alcuni s’è aperto lo sportello per altri, invece, si è aperta la porta! Rrini mirë!
Ci accomiatammo con un velo di tristezza perché se questa giovane e volenterosa laureata non avrà la riconferma in questo posto precario sarà costretta a raggiungere i genitori all’estero … proprio come un’emigrante di mezzo secolo fa!

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