lunedì 30 agosto 2010

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lunedì 2 agosto 2010



ΔΙ'ΕΥΧΩΝ ΤΩΝ ΑΓΙΩΝ ΠΑΤΕΡΩΝ ΗΜΩΝ... PER MEZZO DELLE PREGHIERE DEI NOSTRI SANTI PADRI...

di Francesco Colafemmina

Isolarsi per qualche giorno aiuta a comprendere mille cose. Te ne accorgi quando torni a casa e ritrovi le solite polemiche, le affilate lame di gente che non sa bene cosa fare, trame cortigiane, marchette curiali e scomposte logorree.
Arriva un momento in cui realizzi che tutto ciò non ha alcun valore. Che probabilmente anche la tua lotta sacrosanta e sincera perde senso nella sterile dialettica. Che infine certa gerarchia della Chiesa Cattolica costituisce ormai una strana entità alla quale difficilmente si riesce ad associare il nome di Cristo.
Domina l'interesse, l'ambizione, dominano le stesse prepotenti passioni degli uomini semplici, quelli che non hanno bisogno di travestirsi da preti per condurre le proprie vite verso il baratro. Sono queste le divinità pagane cui molti monsignori, preti, cardinali si sono pienamente votati.
Per un attimo uno squarcio di cielo ti riporta all'essenziale e impercettibilmente sali su una collina dalla quale la frenesia umana ti appare insana e febbrile agitazione di anime mosse dall'interesse e dall'esaltazione dell'io.
Qualche giorno fa, mentre ascendevo non più metaforicamente, ma fisicamente, sull'aspra collina di un'isola greca, laddove un tempo s'ergeva un kastro veneziano, il mio sguardo è rimasto folgorato da una data: 1675. Questa data scolpita sull'architrave di una delicata chiesa ortodossa mi ha rapito in un vortice di memorie. In quegli anni l'Europa vedeva splendere gli ori del barocco, architetture leziose e audaci, opere d'arte sublimi che mirano a illudere e stupire, la musica avanzava verso nuovi orizzonti armonici, il teatro trionfava ovunque e le corti europee erano floride e raffinate (tra una guerra e l'altra...).
Quanta differenza nella Grecia sottomessa all'Ottomano invasore. Su quella collina la stessa terra secca di oggi, le stesse ruvide pietre e la semplicità del luogo sacro erano specchio di un popolo sinceramente cristiano. Così anche l'arte e l'architettura sacra di quel popolo erano intrise di Vangelo. Non è forse contenuta nel Vangelo una norma etica fondamentale che spinge l'uomo a mettere sempre l'altro dinanzi a sé, ad amare il più debole, il più semplice, a innalzarlo scorgendo nei suoi occhi quelli del Redentore?
Ecco dunque che quell'architettura semplice e banale, quell'iconostasi ferma ai canoni estetici dell'epoca bizantina classica, attestano la perfetta congiunzione fra un'arte e un'architettura intimamente sacre e cristiane, ossia in grado di comunicare con un linguaggio semplice e immediato i misteri della fede incarnati con somma elevazione teologica nelle forme materiali e spirituali. Il punto di maturazione di arte e architettura non più semplicemente sacre o chiesastiche, ma di Cristo e per Cristo, con i propri fruitori, i fedeli, cristallizzato nell'esperienza artistica bizantina, non richiese più modifiche, audacie o avanzamenti, ma bastò a se stesso.
D'altronde al di fuori della Corte Papale e delle singole corti delle Monarchie europee, non furono gli artisti più noti a trionfare, né tantomeno le mode più singolari o le tensioni innovative e rivoluzionarie, bensì la semplice pulizia degli anonimi artigiani, dei mastri costruttori, di manieristi maldestri o di geni sottovalutati. Ed è tutta quest'arte e quest'architettura anonima a perpetuare il messaggio di Cristo anche nei luoghi meno frequentati dal talento sublime o dal genio inarrivabile. Artisti e architetti scompaiono e restano opere solenni e benedette dal tempo e dalla fede che hanno nutrito.
Questo anonimato solenne l'ho ritrovato in quella chiesa dell'anno 1675 ancor più esaltato dall'intima volontà di aderirvi senza rampogne, non per semplice necessità, ma per convinzione.
Nel fiume in piena del tempo che non possiamo risalire un conto è veder passare panorami sempre nuovi e immagini riflesse che si susseguono senza tregua, in un impeto di superare il tempo col tempo, e un altro è contemplare un panorama che muta solo nelle sfumature, nei colori che il sole disegna sugli alberi e sull'acqua, nell'alternanza tra il giorno e la notte, e resta sempre uguale a se stesso, fedele a Colui cui radicalmente appartiene.
Quest'arte dà conforto e accompagna il fedele nella solida certezza del suo messaggio immutabile.
Ecco perché non si può non sorridere dinanzi ai vaniloqui ben calibrati, agli autoreferenzialismi accademici, alla vanità di quei quattro gatti che in fondo se la suonano e se la cantano fra di loro, ebbri di un aristocratismo castale rinsecchito e isterilito da un'assordante assenza di contenuti e da un silenzioso serpeggiare di ambizioni.
Ah, com'è bello il silenzio di quella chiesetta su cui soffia il meltemi, seduta sulla cima della collina a guardare le miserie del mondo, di una fede calpestata e spenta, mentre un vecchio sacrista ornato di un paio di grossi baffi grigi s'affretta a cambiar l'olio alle lanterne dell'iconostasi, prima che si canti l'esperinòs! Allora il sacerdote, mentre il sole allagherà il mare con i suoi colori, potrà ripetere serenamente: Δι' εὐχῶν των ἁγίων Πατέρων ἡμῶν, Κύριε Ἰησοῦ Χριστέ, ὁ Θεὸς ἡμῶν, ἐλέησον καὶ σῶσον ἡμᾶς. Ἀμήν. (Per mezzo delle preghiere dei noi Santi Padri, Signore Gesù Cristo, nostro Dio, abbi pietà di noi e salvaci. Amìn.)

Su suggerimento del P. Giovanni Festa di Palermo.


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