mercoledì 26 settembre 2012

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«Gli ortodossi non hanno mai avuto simpatia per le summe teologiche, né per i sistemi scolastici. Ogni formulazione o definizione eccessiva provoca una diffidenza istintiva, L’ortodossia non ha bisogno di formulare, ha bisogno di non formulare. È una convinzione innata che viene dai Padri della Chiesa, che non è bene speculare sui misteri, è meglio contemplarli, lasciarsi illuminare e penetrare dalla loro luce; così senza farsi razionalizzare, il mistero diviene illuminante. Da qui ogni tipo di spiritualità, molto più liturgico e iconografico che discorsivo, concettuale e dottrinale». 
                                                                     P. N. Evdokjmov
                                                            (teologo russo – 1901/1970)
 
 CULTO, CULTURA E CRISTIANESIMO (1)
 
 di p. Pavel A. Florenskij
 
Una foto giovanile di Pavel A. Florenskij (1882/1937)
     La cultura è la lotta consapevole contro l’appiattimento generale; la cultura consiste nel distacco, quale resistenza al processo di livellamento dell’universo, è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che assurge a condizione di vita, è la contrapposizione all’omologazione, sinonimo di morte. Ogni cultura è un sistema finalizzato e saldo dimezzi atti alla realizzazione e al disvelamento di un valore, adottato come fondamentale e assoluto, e dunque fatto assurgere a oggetto di fede. I primi riflessi di questa fede nelle funzioni imprescindibili dell’uomo determinano i punti di vista sui settori inerenti a dette funzioni, ossia sulla realtà oggettiva nella sua interazione con l’uomo. Tali punti di vista sono, sì, categorie, ma non categorie astratte, bensì concrete (si veda la Kabbalah); la loro manifestazione nella pratica è il culto. La cultura, come risulta chiaro anche dall’etimologia, è un derivato del culto, ossia un ordinamento del mondo secondo le categorie del culto. La fede determina il culto e il culto la concezione del mondo, da cui deriva la cultura (…)
     Per un ortodosso la Chiesa non è un’autorità esterna come per i cattolici; gli ortodossi non hanno mai avuto cara quell’unità della Chiesa che i fedeli conquistano a scapito detta propria libertà, ma sono altrettanto lungi dall’interpretazione protestante, per la quale «Chiesa» è una  parola vuota. Il cattolicesimo tende a identificare la Chiesa con il Clero, a opporre il clero ai laici. Nell’ortodossia la Chiesa non è pensabile senza la gente, e il popolo dei credenti è la Chiesa. È un’opinione che accomuna tutte le Chiese ortodosse, dagli armeni ai greci; nel XV paragrafo dell’enciclica dei patriarchi d’Oriente del 6 maggio 1848 dice: «Né i patriarchi né le chiese hanno mai potuto introdurre, da nessuno  alcunché di nuovo, giacché custode della nostra devozione e dottrina il corpo stesso della Chiesa, cioè il popolo». Innocenzo, vescovo dei isole Aleutine, sosteneva che il vescovo è allo stesso tempo maestro allievo dei proprio gregge.(…)
     Un’altra peculiarità del rapporto tra ortodossia e Chiesa è il primato del culto, e della liturgia in particolare, sulla dottrina e la morale cristiana. Turpiloquio, zuffe, ubriachezza sono un peccato minore rispetto a un digiuno violato; un confessore perdona più facilmente un peccato di lussuria che una celebrazione mancata; prender parte alla liturgia avvicina alla salvezza più che la lettura del Vangelo; l’esercizio del culto è più importante della beneficenza. Non per nulla il nostro popolo ha assimilato il cristianesimo non dal Vangelo ma dal prologo (delle vite dei santi), è stato edotto non dai sermoni ma dalle liturgie, non dalla teologia ma dal culto e dalla devozione alle cose sacre. Menti avvezze a concedere il primato alla ragione, all’intelletto e all’analisi si scandalizzano della cosiddetta fede liturgica degli ortodossi; ma il loro scandalo altro non è che un malinteso. Forse che un malato farebbe meglio a studiare medicina invece di prendere un farmaco e curarsi? La religione non è mai figlia della ragione; a infastidire chi non la ammette non è solo la fede liturgica, ma anche la filosofia religiosa; che la religione la ammette, invece, riconoscerà che essa non è propriamente ragione, né conoscenza, ma relazione concreta con Dio; la religione non è speculazione sulle cose di Dio, ma accoglimento del divino nella sua essenza. Perciò la preghiera - durante la quale Dio scende nel cuore deflorante - è per chi crede financo superiore alla lettura della Bibbia o alla devozione per le reliquie, dalle quali, come da un vaso ricolmo, si riversa la grazia; è più importante del far propria la saggezza teologica. L’Eucaristia, l’accoglienza del Corpo del Signore nel proprio, è infinitamente più importante di qualunque sermone, di istituti di beneficenza, scuole, ospedali da fondare ecc. L’ortodosso ritiene graditi a Dio non solo gli atti suddetti: le formule di preghiera pronunciate in chiesa, le melodie che visi cantano, i lumi, i ceri accesi non sono solo parole e gesti, ma cerimoniali, ossia formule e atti che - per quanto somiglino a parole e gesti consueti - se ne distinguono per una forza misteriosa, mistica, sovrannaturale. Esteriormente l’acqua santa non è diversa dalla normale, ma scaccia i demoni, guarisce dal malocchio ed è d’aiuto contro i malanni. Si comprende, così, l’ostinato conservatorismo dell’ortodossia russa, che non consente di modificare una sola lettera, un solo gesto della liturgia. Sono quelle formule ad aver dato la salvezza, e non è dato mai sapere se le nuove possano fare altrettanto. (…)
     «L’ortodossia» ha scritto Pobedonoscev « è religione di pubblicani e prostitute, che entreranno nel Regno dei Cieli prima di uomini di legge e farisei.» Così intendevano l’ortodossia Leskov e Dostoevskij, e nessuno meglio di loro ha descritto la sostanza della fede popolare. La forza di Dio si compie nella debolezza; se Dio stesso si è fatto debole, come possiamo noi disprezzare i deboli? Che sia nella debolezza che si manifesta la grazia? Per questo l’ortodosso non giudica mai dall’aspetto esteriore. Egli non ha fretta di giudicare e scandalizzarsi, prova persino una certa simpatia per ubriachi, miseri, straccioni, ignoranti o semplici idioti. Egli non cerca splendore, grandezza forza, al contrario è quanto mai cauto quando vede forza e fulgore che sempre gli paiono «umani, troppo umani». L’ortodossia è l’esito opposto dell’idea pagana ed europea moderna (come espresso suo massimo da Nietzsche) per la quale il valore dell’uomo aumenta con l’accrescersi delle sue qualità esteriori, per la quale quanto più intelligente, bello e forte in corpo e volontà è l’uomo, tanto più egli sarà divino. L’ortodossia attua un rovesciamento dei valori assai più radicale; non solo essa mette in dubbio la corrispondenza diretta il valore dell’uomo e i suoi meriti umani, ma è incline a intende tale corrispondenza come inversa. (…)    
     Il suo giudizio l’ortodossia lo applica anche all’ambito del sociale. «Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori (Salmi CXXVI)» Essa guarda con sospetto al processo sociale e culturale, e nel migliore dei casi lo giudica opera assai relativa, del tutto umana e che poco ha in comune con quei processi autenticamente divini e misteriosi che si compiono nell’animo delle genti. Raggiungere l’uguaglianza, eliminare la povertà e la fame, ottenere che la pace regni nel mondo è forse possibile, ma «quando si dirà: “pace i sicurezza”, allora all’improvviso li coprirà la rovina» (1 Tessalonicesi 5,3). E se al mondo servissero sofferenze e povertà? Se una volta raggiunto il benessere, l’umanità si facesse presuntuosa e dimenticasse Dio? Se la sazietà quietasse la coscienza? Se l’ozio e una vita senza dolore risvegliassero vizi inauditi? Per questo l’ortodossia non mira ad adoperarsi nella società e non ha un’alta opinione delle iniziative sociali. Persino nell’ambito della Chiesa e delle sue opere (la missione, l’istruzione religiosa), l’ortodossia mostra non solo imperizia, ma financo indifferenza. Di questo atteggiamento ha dato una definizione precisa san Eulogio quando venne consacrato vescovo di Lublino: «Dobbiamo forse impugnare la spada anche noi» disse «armarci di tutto punto per la battaglia come fanno le altre religioni che si vantano dei grandi, enormi successi della loro propaganda? Si ode allora la voce minacciosa del nostro primo pastore: “chi di spada ferisce, di spada perisce”. No, non è questa la forza del vero pastore nello spirito di Cristo: essa non sta nel rigore e nella salda organizzazione dei suoi uomini, non nel fatto che essi occupino ogni ambito della società, non nell’abbondanza di mezzi materiali, e nemmeno nei sermoni che tanto ripugnano alla saggezza umana; no, dice il santo apostolo, non è per la carne che combattiamo; le armi del nostro esercito non sono di carne, ma hanno forza in Dio; sono la corazza della giustizia, lo scudo della fede, l’elmo della salvezza, la spada dello spirito, il verbo di Dio e la preghiera».
     Le parole citate esprimono con chiarezza sia il disprezzo per le forme umane di lotta, sia il timore di scambiare per divine quelle che sono gesta umane. Ciò non significa che l’ortodossia neghi tutte le opere dell’uomo, ma più d’ogni altra cosa essa teme di confondere il divino col terreno. Siamo agli antipodi del luteranesimo che ritiene compito della Chiesa, o meglio degli uomini, sia gli uffici religiosi che la predicazione, e la beneficenza. L’ortodossia non nega la beneficenza; vestire gli ignudi, sfamare gli affamati, visitare i malati sono virtù antiche dei russi, ma hanno senso solo in quanto atti d’amore, di carità, e non quale mutamento del mondo da «valle di lacrime e pianto» in paradiso terrestre. Laddove in Occidente l’attività sociale e la beneficenza religiosa si prefiggono di rendere più normali le condizioni di vita e assumono perciò forme neutre e meccaniche (ospizi per i poveri, eliminazione della povertà, pensioni di Stato per gli anziani, assistenza), pur provando grande compassione per chi soffre, l’ortodossia non crede nella possibilità di cambiare le cose per tramite di sforzi umani, e dunque la beneficenza… ha carattere personale di aiuto a una determinata persona, senza intermediari e solo per amore nei confronti del singolo uomo, e non perché si creda con ciò: di cambiare le condizioni di vita dell’umanità. (…)
     E poiché tutto si compie non grazie alla nostra ragione, ma nel giudizio Divino, poiché l’uomo pone e Dio dispone e tutto, alla fin fine, è nelle Sue mani, il dovere religioso dell’uomo è di sottomettersi a Dio, di rinunciare alla propria volontà umana e di non contrariare quella Divina. Questo è il primo obbligo del cristiano. E deve compiere in umiltà ciò a cui viene chiamato, vivere come tutti gli altri senza mettersi in evidenza né porsi grandi traguardi, e disquisire il meno possibile. (…)
     Vien da credere che di tutte le confessioni cristiane nessuna senta proprio Cristo come l’ortodossa. Nel protestantesimo Cristo è un’immagine lontana senza nulla di individuale; nel cattolicesimo egli è fuori dal mondo e fuori dal cuore dell’uomo. I santi cattolici lo vedono dinanzi a loro, come modello a cui somigliare fino alle stigmate, le ferite dei suoi chiodi, e solamente l’ortodosso - non solo il santo, ma qualsiasi laico devoto lo sente dentro di sé, nel proprio cuore. (…)
     L’intimità con Dio non ha nulla in comune con l’esaltazione e il sentimentalismo occidentali...
 
NOTA
 
(1)Tratto dal libro di Florenskij, Bellezza e liturgia - Oscar Mondadori - I edizione oscar - 2010

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