lunedì 5 settembre 2011

Dal sito: tradizione.oodegr.com

“Ecco un santo che cammina sulla terra!”
 “Solo tu, Signore, sai di che cosa abbiamo bisogno”
(preghiera del Patriarca di Serbia, sig. Pavle)
  
Sua Santità l’Arivescovo di Peć,
Metropolita di Belgrado e Karlovci,
Patriarca di Serbia Pavle
11.9.1914 – 15.11.2009
 
Da un ragazzo debole, per il quale accendevano la candela credendo che fosse morto e che nel corso di religione prendeva 2, è diventato uno tra i più grandi uomini spirituali del suo tempo.
Dopo 22 ore di viaggio sull’aereo tornando dall’Australia si reca direttamente alla veglia presso la Chiesa della metropoli di Belgrado, dopo si impegna a ricucire per due ore la sua tonaca strapazzata per partire alle 6 di mattina, dopo la celebrazione della divina Liturgia, per Mosca, dove il Patriarca russo Alessio II gli chiederà, se nel frattempo, è riuscito a visitare la Nuova Zelanda.
 
Trovandosi in America, nella missione per il ritorno e la riunificazione con la Chiesa madre di Serbia delle eparchie serbe separate della Chiesa Ortodossa Serba in America, l’estate del 1992, prima della partenza da Los Angeles per Chicago, sua Santità, ossia, il Patriarca dei Serbi Pavle sollevò la tonaca, ed entrò nelle acque del Pacifico. Rimase in questa posizione per un po’ guardando la profondità e l’altezza dell’orizzonte, evidentemente stava pregando; si chinò e dal fondo dell’acqua prese due pietre bianche, le baciò e le mise in tasca. Poi tracciò il segno della croce sul suo corpo e si diresse alla vettura che lo aspettava a poca distanza. Uno degli agenti dell’FBI che lo vigilavano, si avvicinò, si inginocchiò e baciò la mano del Patriarca Serbo esclamando: “Ecco, un santo che cammina sulla terra!”.
Le stesse parole si sarebbero potute sentire a quel tempo in Serbia dalle persone che seguivano le sue celebrazioni, ma anche da coloro che lo incontravano per le strade di Belgrado, mentre si recava con il suo “bastoncino” nei mercati o in una sinassi o a qualche altro lavoro.
 
 
Gojko Stojčević* ha attraversato una lunga e difficile strada, divenuto poi monaco e in seguito vescovo Pavle, fino a quando sarebbe stato chiamato, ancora vivo sulla terra, “santo”.
Nacque il giorno della festa della Decapitazione di San Giovanni il Precursore, l’11 settembre (vecchio calendario) del 1914 nel villaggio Kućanci di Slavonia (oggi questa regione appartiene alla Croazia, i Serbi furono cacciati da lì nel 1995, durante la recente guerra), dove i suoi genitori emigrarono dal sud della Serbia. In tenera età rimase orfano, cosa che rese la sua vita ancora più difficile.
“Molto presto rimasi senza genitori”, dice, “mio padre lavorava in America, lì si ammalò di tubercolosi e tornò a casa, solo per morire. Mia madre fece le seconde nozze dopo un anno, mentre mio fratello e io siamo rimasti con mia nonna e mia zia. Anche mia madre dopo un po’ morì. Perciò il concetto di madre per me è legato alla zia. Sentivo il suo amore infinito, lei sostituì mia madre, a tal punto che ora che ci penso quando morirò, incontrerò prima di tutto mia zia e poi gli altri”.
Da bambino era, come racconta lui stesso, molto debole, al punto che un giorno gli accesero la candela credendo che fosse morto! La zia si rese conto che Gojko non era adatto per i lavori di campagna e si decise a mandarlo dallo zio, per studiare.
Più tardi racconterà lui stesso riguardo a quell’epoca: “Nella periferia della città di Tuzla siamo riusciti a sopravvivere grazie ad una mucca, che eravamo costretti, quasi a costo della scuola e dello studio, a portare al pascolo. Lo zio era severo ma giusto. Ha educato tutti i suoi figli, compreso me. Ci siamo tutti laureati all’Università, mentre alcuni hanno ottenuto anche il dottorato”.
“Prima di iniziare la scuola superiore, mi mandarono nel monastero di Orahovica, perché mi preparassi lì per un po’ di tempo… rimasi lì per un mese, ma non riuscivo a comprendere molte cose agli Uffici. Avevo tuttavia una sensazione intima dei secoli passati e degli antenati, che pregavano in questo luogo; per me queste preghiere erano presenti, come anche i loro sospiri e le loro gioie; tutto questo si incise tantissimo nella mia mente, tuttavia non mi immaginavo che poi il mio futuro sarebbe stato legato alla Chiesa”. Non c’era niente nel giovane Gojko che potesse rivelare il suo futuro ecclesiastico, neanche il suo voto alla lezione di religione! Pur crescendo in una famiglia religiosa ed essendo uno studente eccellente, tuttavia in questa materia prendeva 2!
“Il nostro professore era basso di statura, Serbo proveniente dall’Ungheria. Ho avuto una serie di professori per molti anni, ma per me lui è rimasto il migliore educatore ed insegnante. Una materia didattica come la Dogmatica, tutta sotto forma di domande e risposte, era difficile da capire a quell’età. Però lui la insegnava così bene che difficoltà non ne avevamo. Era bravo, ma un uomo molto severo. Quando mi interrogava durante la lezione, non mi ci trovavo più; non potevo dire niente, borbottavo qualcosa qua e là; allora lui rivolgendosi a me diceva: ‘siediti!’. Quando chiedeva qualcosa di difficile io trovavo l’opportunità di migliorare la mia impressione. Di solito diceva: ‘Chiunque sa prenderà 2’. Se sapevo, alzavo la mano e correggevo il mio voto. Più tardi, quando sono cresciuto, sono diventato più indipendente, non avevo più ansia, anche se mi piacevano di più le materie che non richiedevano molta memoria, come la matematica e la fisica. Ha prevalso l’influenza dei miei parenti per l’iscrizione alla Scuola Sacerdotale, sebbene il mio interesse fosse verso la fisica della quale mi sarei occupato più avanti, in particolare nel mio tempo libero.
Il Patriarca terminò la Scuola teologica a Belgrado. La Seconda Guerra Mondiale scoppia mentre si trova al suo paese natio, in Slavonia, da dove, come molti altri serbi, fu costretto a rifugiarsi in Serbia. Si ritrovò di nuovo a Belgrado ma ora come profugo. Per poter guadagnarsi da vivere, fu costretto ad accettare di fare lavori pesanti da operaio.
Egli stesso racconta: “Quando nel 1941 fuggii a Belgrado, lavoravo nelle costruzioni, nelle banchine di carico e scarico dei porti… Fu lì che il mio pollice rimase deformato. Non avevo la forza di sopportare questi lavori. Nella primavera del 1942, il mio compagno di classe Ieromonaco Eliseo (Pojovds) mi condusse al Sacro Monastero della Santissima Trinità a Ovčara. Il monastero era in buone condizioni economiche ed era in grado di mantenere anche me. Mi affidarono dei lavori più leggeri. Dopodiché lavoravo come insegnante e catechista a Banja Koviljača, all’istituto dei bambini profughi dalla Bosnia. Un giorno caldo di agosto nel 1944, noi stessi insegnanti, abbiamo portato i ragazzi al fiume Drina. Gli mostrammo il punto fin dove potevano arrivare nel fiume; ma i bambini sono bambini! Quindi, vedo un bambino allontanarsi e immergersi nelle acque; si dà una spinta dal fondo cercando di emergere, raggiunge la superficie cercando di respirare, ma non riesce ad arrivare alla riva. Pur essendo accaldato e completamente sudato come ero, mi sono buttato verso il bambino e l’ho tirato fuori. Poi l’ho preso, l’ho piegato sulle mie ginocchia e gliele ho “suonate” dicendogli: ‘Figlio mio, ti sei salvato dalla Bosnia, tua madre e tuo padre sono stati assassinati e tu ora vuoi annegare davanti a me. Dove hai la tua mente?’. Subito dopo questo mi ammalai, ho avuto febbre alta. Sono andato a fare i controlli medici dopo i quali mi è stato detto: Tubercolosi!”. Si trattava di questa malattia grave, che a quel tempo non lasciava nessuna speranza di salvezza. I medici dissero a Gojko che gli rimanevano solo tre mesi di vita. I monaci lo portarono nel Sacro Monastero Vujan, ma gli raccomandarono di non entrare nella chiesa durante gli uffici e la divina Liturgia, di non mangiare con la fraternità e di evitare qualunque contatto con gli altri, affinché non contagiasse la malattia. Quando i monaci terminavano gli Uffici, allora lui entrava in chiesa e pregava bagnandosi nelle lacrime.
Al monastero venivano dei soldati di vari eserciti. Controllavano anche la cella di Gojko. Sebbene, ovviamente, fosse esausto e malato, era considerato sospetto da tutti. Quando, però, venivano a sapere che soffriva di tubercolosi, lasciavano la stanza chiudendo velocemente la porta.
Gojko non si perse di morale. Con la preghiera combatté la malattia. E poi, miracolosamente, cominciarono a mostrarsi i segni della guarigione. Questo gli ha dato la possibilità, mentre era solo nella sua cella, di considerare il futuro. In precedenza progettava una vita da prete sposato. Ma ora, dopo la fine della malattia, si rese conto che il suo progetto non poteva più essere realizzato. Osservando da vicino la vita dei monaci voleva anche lui essere tonsurato monaco.
Come segno di gratitudine verso il Sacro Monastero in cui era guarito, il monaco Gojko, già novizio, con un coltello scolpì sul legno la Croce e la crocifissione del Signore. Sul retro della Croce incise le parole (in slavonico): “Per il Monastero Vujan, per la mia guarigione lascio in segno di offerta, il servo di Dio Gojko”. Questa Croce oggi è conservata tra i più comuni cimeli del tesoro del monastero. Dopo gli anni della sua vita trascorsi come novizio presso il Sacro Monastero Vujan fu tonsurato monaco nel Sacro Monastero dell’Annunciazione nel 1948. Gli fu dato il nome di Paolo. Questo nome cercherà in ogni modo di onorare seguendo la via apostolica e le parole di colui dal quale lo ha ricevuto, l’apostolo Paolo.
Dal 1949 fino al 1955, nel tempo della grande lotta del potere comunista contro la Chiesa Ortodossa Serba già profondamente provata, Pavle appartenne alla fraternità del monastero di Rača.
“Nel tempo trascorso a Rača”, noterà più tardi in un suo testo autobiografico, “al Monastero non eravamo separati dal popolo, e così venivamo a sapere ciò che stava accadendo nel mondo e in che tempi vivevamo. Avevamo caricato le nostre preoccupazioni interiori e le nostre ansie sul carro delle nostre attività quotidiane, che non riuscivamo a sbrigare fino alla sera. Fu un tempo in cui prendevamo solo un pezzo di pane mentre per tutto il giorno lavoravamo nei campi, ci prendevamo cura degli animali del monastero e trasportavamo legna dalla foresta. Per un periodo di tempo lavorai al mulino ad acqua del monastero. Di sera dopo il lavoro eravamo impazienti di radunarci, non per riposare ma per pregare. Non vi è maggiore beatitudine che nel momento in cui l’uomo stanco prega in umiltà. Allora l’uomo intero si trasforma sostanzialmente in una condizione di preghiera: per la salvezza del popolo e di noi individui. Avevamo in mente che dobbiamo servire Dio, chiunque stesse governando e questo per noi era il significato più profondo della vita monastica”.
Nel frattempo lo ierodiacono Pavle nell’anno 1950-51 era stato docente presso la Scuola Sacerdotale a Prizren (che gli Albanesi hanno distrutto e bruciato nel marzo del 2004 in Kosovo, sotto gli occhi dei soldati della NATO…). Fu tonsurato ieromonaco nel 1954; nello stesso anno ricevette la nomina di protosincello. Nel 1957 divenne archimandrita. Seguì studi post-laurea presso la Facoltà teologica dell’Università di Atene nel corso degli anni 1955-1957. Successivamente venne eletto al trono episcopale di Raška e Prizren (Kosovo).
In Kosovo e Metohija nel territorio di Raška, su questo trono episcopale servirà per circa 34 anni. A quel tempo quando accadevano vari atti contro la Chiesa, col consenso dello Stato, si impose di resistere contro vari attacchi: con la preghiera pura, attraverso la sua saggia guida e con gli inviti palesi. Metteva al corrente continuamente il Santo Sinodo della Chiesa Serba e lo Stato riguardo agli attacchi, che avevano luogo contro i Serbi e contro la proprietà della Chiesa Serba in Kosovo e Metohija. 
“Ricevevo degli avvisi di stare attento ai miei frequenti rapporti al Sinodo, perché essi arrivavano nelle mani del potere dello Stato, mentre era sempre più chiaro che da qualche parte era stato già deciso che il Kosovo non doveva più essere Serbo”, noterà il Patriarca più tardi.
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
I risultati dell’illegale occupazione del Kosovo da parte della NATO: chiese ed icone profanate e distrutte, secoli di memorie cristiane cancellate sotto gli occhi dei soldati europei, mentre sui ruderi delle chiese cristiane sorgono oggi le moschee finanziate dai petroldollari dell’Arabia Saudita.

La chiesa Cattedrale di Prizren dopo essere stata incendiata dai terroristi Albanesi
 
Lui stesso, personalmente, diventava spesso vittima; strada facendo era oggetto di oltraggi, insulti, torture. Sugli autobus era perseguitato violentemente. Ad una fermata dell’autobus a Prizren un Albanese lo schiaffeggiò con rabbia, senza motivo. A causa della brutalità dello schiaffo, il kalimafchion e il vescovo stesso andarono in direzioni opposte! Il vescovo si alzò, raccolse il kalimafchion, lo mise in testa, guardò con pietà l’assalitore e proseguì per la sua strada. Da Prizren fino a Belgrado viaggiò in diverse occasioni su vagoni con i finestrini senza vetri, dove la neve copriva i posti a sedere. Soffrì tutto, senza mormorare, prendendosi cura molto di più della sua provincia e degli altri che di sé stesso. “Questo vescovo e teologo molto colto”, ha osservato il famoso Storico dell’Arte Z. S., “lo vedevamo sull’impalcatura, da dove rischiava di rompersi il collo, a riparare i tetti dei templi o gli alloggi dei monaci, mentre nella sede della sua provincia non c’era il palazzo arcivescovile, ma una cella, senza telefono né segreteria personale, c’era solo la macchina da scrivere in un ufficio dove lui stesso redigeva le relazioni, i rapporti e le lettere, scrivendo sulla carta più economica del mercato! Ovunque c’erano molte risposte pastorali alle domande dei credenti: dalle questioni più semplici e pratiche alle più complesse e spirituali…”. Prestava una cura particolare alla Scuola Sacerdotale di Prizren, dove a volte teneva delle conferenze. Andava spesso lì dagli studenti interessati a chi e in che cosa li avrebbe aiutati. La notte andava a coprire gli studenti mentre dormivano!
Molti furono sorpresi dal fatto che Pavle era stato eletto al trono Patriarcale di Serbia. Fino ad allora non era stato presentato dai media e al pubblico (ma anche tra gli altri vescovi) non era il candidato principale per la sede del primo gerarca. 
Alla sessione del Santo Sinodo della Chiesa Serba per l’elezione del Patriarca (1.12.1990), in conformità con la costituzione della Chiesa di Serbia, gli elettori vescovi dovevano “tracciare” una croce su tre candidati i quali dovevano raccogliere il minimo di 13 voti. Al primo turno furono eletti solo due.
Il terzo, il vescovo Pavle, a causa dei voti insufficienti (11) rimase fuori e solo al 9° turno fu eletto con 20 voti e così entrò nella triade dei candidati.
Seguì la fase finale delle elezioni per voto, vale a dire nel modo Apostolico: l’igumeno del monastero di Tronosa dopo aver pregato prese dal libro dell’Evangelo tre buste sigillate contenenti i nomi dei tre candidati, le mescolò e ne prese una, che consegnò al presidente, l’archierea; egli, davanti alle Porte Regali, mostrò la busta sigillata, la aprì e annunciò: “L’Arcivescovo di Peć, il Metropolita di Belgrado e Karlovci e Patriarca di Serbia è il Vescovo di Prizren e Raška, Pavle!”.
Commentando il fatto, dopo 15 anni dalla sua elezione, il vescovo di Montenegro sig. Amfilohije ha scritto: “L’unico uomo che in realtà non voleva diventare patriarca, era il patriarca Pavle!”.
Dopo la sua elezione il patriarca Pavle rivolgendosi al Santo Sinodo dirà: “Le mie forze sono piccole e voi lo sapete. Io non pongo speranze in esse. Spero nel vostro aiuto e, ripeto, nell’aiuto di Dio, con il quale Egli finora mi ha sostenuto. Che sia per la gloria di Dio e per il bene della sua Chiesa e del nostro popolo provato in questi tempi difficili”.
 
 
Il giorno dopo l’insediamento nella cattedrale annunciò il programma breviloquente: “Salito al trono di san Saba come 44° Patriarca della Serbia non ho proprio nessun programma per l’opera patriarcale. Il mio programma è l’Evangelo di Cristo, questa Buona Notizia riguardo Dio che è con noi e del Suo Regno che è in noi – finché lo accettiamo con fede e amore”.
Assunse le funzioni patriarcali in uno dei più difficili periodi della storia serba: nel tempo delle guerre, delle pressioni e dei ricatti dei potenti del mondo, delle turbolenze interne e della povertà, nel tempo della contestazione del sacro.
 
 
Si opponeva al male da dovunque esso arrivasse invitando i suoi compatrioti ma anche gli stranieri a rinsavire. Affermava che: “Sotto il sole vi è abbondanza di spazio per tutti” e che “Tutti gli uomini hanno bisogno ugualmente della pace come noi, anche i nostri nemici”. Spesso riferiva dei passi da una poesia popolare serba, dove si dice: “È meglio perdere la nostra testa, che perdere la nostra anima”. Con queste parole insegnava che “abbiamo l’obbligo di comportarci da umani, anche nella situazione più difficile e non vi è alcun interesse nazionale né personale che potrebbe essere una scusa per non comportarci da umani”.
Queste parole costantemente ripetute, “dobbiamo essere umani” hanno riempito le orecchie anche dei bambini piccoli che in modo amorevole lo chiamavano “Pavle-Pavle-essere-umani”. Tutti hanno sentito queste parole, ma molti non hanno voluto obbedire. Tra questi c’erano anche quelli che nella sua patria (l’odierna Croazia), durante la guerra del ‘90, demolirono una chiesa ortodossa solo perché in essa era stato battezzato il Patriarca dei Serbi! Questo è accaduto sebbene non si combattesse nel raggio di 40 km dalla chiesa.
 
 
Il Patriarca Pavle è stato instancabile nello svolgimento dei suoi doveri pastorali. Così nell’autunno passato, nei suoi 91 anni, decise di visitare l’Australia, tra l’altro, per benedire un’estensione di 87 ettari di terreno, acquistato dalla Chiesa Serba, per costruirvi il collegio “San Saba”, dove insieme ai ragazzini Serbi potranno frequentare i corsi anche Russi, Greci, ecc.
Alcuni vescovi cercarono di impedirglielo, dicendo che la durata del viaggio andava al di là della sua resistenza. Il Patriarca li contraddiceva: “Per me non è difficile, ma come ce la faranno loro (la sinodia, la scorta)?”.
Andò in Australia e cercò di riempire le due settimane del suo soggiorno di opere missionarie. Quando tornò a Belgrado si recò direttamente alla veglia, anche se aveva viaggiato con l’aereo per 22 ore; la mattina se ne partì subito per Mosca.
Il Patriarca di Russia Alessio II sapendo tutto questo, gli chiese scherzosamente: “Santità, ha fatto un lunghissimo viaggio, ad è arrivato fino a qui, ha per caso visitato anche la Nuova Zelanda, visto che abbiamo un popolo ortodosso anche lì?...”.
“Santità, questa volta non l’ho fatto ma naturalmente lo farò nei prossimi 90 anni!”. 
Il Patriarca Pavle, nonostante i suoi numerosi obblighi, trascorse una vita fondamentalmente monastica. Ogni mattina celebrava e si comunicava nella cappella del Patriarcato e ogni notte era presente alla cattedrale per l’ufficio del vespro.
Non partiva per nessun motivo prima di celebrare la divina Liturgia.
Nel corso del cammino della sua vita, cominciando dal luogo della sua nascita e dai posti dove è stato istruito fino alle località dove svolgeva il suo dovere, divenne il simbolo unificante della Chiesa Serba. Inoltre, nella vita e nel suo ruolo nel mondo ortodosso, è stato anche uno dei simboli dell’unità dell’Ecumene Ortodosso.
Accadde una volta che, durante gli anni delle recenti guerre, vide dal suo appartamento nei pressi del palazzo patriarcale un gruppo di profughi sulla strada bagnarsi sotto la pioggia; scese e aprì la grande porta del Patriarcato, di legno di quercia, e li invitò ad entrare, perché si mettessero al riparo dalla pioggia. Quando i suoi collaboratori gli fecero notare che avrebbe potuto esserci la possibilità che entrasse anche qualcuno con intenzioni non buone (infatti, si viveva in tempi di guerra), rispose loro: “Come potrei dormire lì al caldo mentre questi ragazzi si bagnano qui fuori!”.
Anche le seguenti shockanti parole sono proprio sue: “Se avessi la forza per raggiungerli, il Dio risorto è testimone, mi sarei messo di fronte alle chiese, agli ospedali e di fronte ai posti di lusso per i ricevimenti e le sfilate di moda e avrei chiesto personalmente l’elemosina per i nostri fratelli e i nostri figli che si trovano nella prova. Ognuno di noi dovrebbe attivamente far vergognare tutte queste ostentate avidità, che esistono in molti luoghi pubblici e non dobbiamo semplicemente scandalizzarci e disperarci perché la spudoratezza ha prevalso intorno a noi”.
 
 
Il Patriarca si prendeva da solo cura di sé stesso per tutte le sue esigenze: preparava da mangiare da solo, visto che il suo cibo era quasi sempre di digiuno, in tutto l’anno – di solito mangiava verdure lessate, l’olio d’oliva lo aggiungeva soltanto nelle feste, mangiava raramente un po’ di pesce e mai la carne. La sua bevanda preferita era il succo di pomodoro mentre il suo cibo di prima scelta erano le ortiche. Quando non digiuna gli piacevano i latticini. Cuciva lui stesso i suoi indumenti, li riparava e li lavava. Ugualmente riparava e manteneva anche le sue scarpe.
Oltre a questo badava a ciò che succedeva intorno a lui. Nel Patriarcato controllava e si prendeva cura che tutto funzionasse nel miglior modo possibile. Quando terminava l’orario di lavoro e tutti se ne erano andati, il Patriarca andava a spegnere le luci dimenticate accese dai lavoratori.
Spesso riparava lui stesso i guasti idraulici, le finestre, le serrature…
Si prendeva cura dovunque ci fosse bisogno, delle cose terrene, mentre sottolineava che la nostra vera patria è quella “in alto” e per questo rammentava che dovremmo stare attenti: “Quando un giorno ci presenteremo di fronte ai nostri antenati, auguriamoci che non proveremo vergogna per loro, e che neanche loro proveranno vergogna per noi”.
Si dice che l’FBI abbia raramente sbagliato: È stato veramente un santo che ha camminato sulla terra!

Poco prima di morire ci ha consegnato il suo testamento spirituale:
“Dobbiamo pregare per coloro che sono nel bene, ma anche per chi riteniamo in cattiva fede, senza perdere la speranza che ciascuno si converta alla salvezza”


Dalle pubblicazioni sulla rivista “NIN” di G. G., di A. Di. ecc.; traduzione dal serbo: M. B.
Bibliografia, ORTHODOXOS TYPOS.
Traduzione a cura di © Tradizione Cristiana

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