venerdì 10 settembre 2010

Considerazioni che il sottoscritto sta predicando da tantissimo tempo e che ora anche qualcun altro cerca di sottolineare. La storia ed il tempo sono convinto che mi e ci daranno ragione. Ma quando?????

Nel XV secolo quando gli arbërëshe si insediarono nel territorio dell’odierna Contessa Entellina dal punto di vista ecclesiastico ricadevano sotto la giurisdizione del vescovo di Agrigento. Rimasero incorporati a quella diocesi fino al 1844, quando nel contesto del riordino ecclesiale del territorio siciliano furono accorpati alla diocesi di Monreale.
La diocesi di Agrigento era allora una delle più importanti dell’isola. Nel periodo iniziale dell’insediamento in Sicilia gli arbërëshe mantennero integro il patrimonio linguistico e liturgico-rituale di origine perché, almeno per loro, furono applicate le conclusioni che erano emerse dall’Unione delle Chiese d’Oriente e d’Occidente sancite nel Concilio di Firenze del 1439.
Ad Agrigento, pertanto, nel contesto post-conciliare risiedeva un Vescovo nominato dall’Arcivescovo di Ocrida (odierna Macedonia) ed accreditato dal papa. La giurisdizione del Vescovo orientale di Agrigento si estendeva a tutti i “greco-bizantini” d’Italia. In questo periodo iniziale di presenza in terra di Sicilia i greco-bizantini non furono sottoposti pertanto ad alcuna subordinazione né alla Curia Romana né ai vari vescovi latini che insistevano sui territori. Piana degli Albanesi ebbe col Vescovo di Monreale una subordinazione di tipo feudale in quanto sorse su terre dell’Arcivescovado, mentre Contessa sorse, come sappiamo, su terre dei Cardona.
Gli ‘orientali’, secondo il Breve di papa Giulio III, rimasero liberi di esercitare i loro riti senza che alcuna gerarchia latina potesse intromettersi.
Lo spirito dell’Unione del Concilio di Firenze valse soltanto per alcuni decenni, pochi, la fase iniziale dell’insediamento durante la quale l’autonomia dei greco-bizantini fu garantita da più di un documento papale: il già ricordato “Breve” di Giulio III nonché il “Breve” di Leone X ‘Accepimus nuper’ del maggio 1521, che integralmente salvaguardavano le tradizioni bizantine (ivi compreso il matrimonio dei preti, ma anche la possibilità di seconde nozze per i fedeli in casi specifici). Veniva salvaguardata e consentita la celebrazione in qualsiasi territorio d’Italia ai papas del rito greco, ossia all’interno delle giurisdizioni dei vescovi latini.
Così andò fino al Concilio di Trento.
Dal concilio della Controriforma iniziò l’accentramento di tutti gli aspetti religiosi della Chiesa nelle mani della Curia Romana ed iniziò la vita difficile per i greco-bizantini d’Italia. Si cominciò con l’imporre che ogni sacerdote venisse ordinato solamente dai Vescovi del territorio su cui si risiedeva e non più dal Metropolita orientale che stava ad Agrigento che era in comunione con Costantinopoli. I Vescovi furono obbligati a fare le visite pastorali nelle parrocchie e quelle bizantine furono ritenute parrocchie del Vescovo latino una volta disconosciuta, dalla Curia Romana, l’autorità del metropolita bizantino di Agrigento. A stringere la cinghia ai danni dei greco-bizantini intervenne Pio IV con il Breve Romano Pontifex del febbraio 1564 che cancellò con un tratto di penna il regime liberale creato da Giulio III e Leone X; egli subordinò tutti gli ‘orientali’ d’Italia ai Vescovi latini che allora non brillavano per apertura mentale: era quello infatti il periodo della Santa Inquisizione e pertanto le pronunce di “eresia” contro i bizantini divennero una loro prerogativa. Le accuse consistevano nel fatto che battezzavano in unico contesto con l’eucarestia e la cresima, consentivano le seconde nozze nei casi di adulterio, usavano il calendario liturgico differente da quello latino. I greco-bizantini agli occhi dei Vescovi Latini del dopo Concilio di Trento inoltre recitavano il credo senza far ‘procedere’ lo Spirito dal Figlio. Per i dogmatici gerarchi latini c’era di che rabbrividire pertanto tutti cominciarono a fare pressione sulla Curia Romana per avere mano libera nell’estirpare il rito greco-bizantino. Ottenero così, nel 1566, la Bolla Provvidentia Romani Pontificis con cui veniva tolta la possibilità ai preti bizantini di celebrare per i fedeli latini (e viceversa). Tutti i Vescovi orientali presenti in Italia furono invitati a sospendere la loro missione e coloro che non ubbidirono furono arrestati e condotti in catene a disposizione della Curia Romana.
Anche di fronte a queste carezze provenienti dalla Curia Romana tantissime comunità greco-bizantine non si adeguarono al disegno di latinizzazione e mantennero integre le loro tradizioni, cosicchè Roma ripiegò su una soluzione meno draconiana.
Sotto Gregorio XIII (1573) fu istituita la Congregazione dei Greci ed utilizzando un lumicino di intelligenza lentamente fu accantonato il piano di estirpazione del rito greco in Italia, pur imponendo il taglio netto di qualsiasi contatto con Costantinopoli.
Servivano nel nuovo contesto i Vescovi che ordinassero i “papas”. Come fare ?
Papa Clemente VIII col suo “Perbrevis Instructio” dell’agosto 1595, grazie a qualche vescovo orientale che accettò di tagliare i contatti con Costantinopoli, ammise l’istituzione dei Vescovi cattolico-bizantini. Da questa fase in poi, per la Curia Romana, sotto l’aspetto istituzionale le due comunità latina e greca non furono più due chiese, due realtà diverse, bensì una Unica Chiesa nel cui ambito insistevano due comunità entrambe cattoliche (giuridicismo romano).
I greco-bizantini furono ammessi alla conservazione di tutte le loro tradizioni (non però alle seconde nozze per i casi fino ad allora consentite) ma con l’esclusione di disporre di una gerarchia propria; in pratica furono privati di coloro che fino a quel periodo erano stati la “guida” non solo spirituale ma anche (e forse soprattutto) comunitaria.
Il Vescovo immaginato da Clemente VIII avrebbe dovuto essere un semplice vescovo ordinante nei confronti dei “papas” e null’altro. I papas furono invece subordinati ai Vescovi latini del territorio.
In questo disegno di oppressione, e quasi soppressione, del rito greco-bizantino in tantissimi paesi del Meridione d’Italia iniziò la latinizzazione forzata che ottenne risultanti in più della metà delle realtà allora esistenti.
Le comunità che resistettero al disegno di latinizzazione nel settecento poterono finalmente avere il Collegio Greco a Palermo e un Collegio analogo in Calabria, oltre che al Collegio Greco (1577) per gli studi superiori a Roma.
I nemici del rito-greco in Italia all’interno della Curia Romana comunque non scomparvero. Sulla loro spinta Papa Benedetto XIV nel maggio 1742 emanò la bolla “Etsi pastoralis” con cui veniva imposto l’obbligo del Filioque, ossia l’asserzione che lo Spirito procede anche dal Figlio, per i greco-cattolici. Veniva sancito che il marito latino che sposava la moglie bizantina non poteva divenire bizantino; la moglie latina poteva educare i figli al rito latino, ma la moglie “greca” non poteva educarli al rito greco.
Ancora oggi, nel terzo Millennio, all’interno della Curia Romana l’Etsi pastoralis viene additato come un documento di tutela per i fedeli di rito orientale.
Nel 1888 gli italo-albanesi inviarono al Papa una supplica per ottenere l’autonomia ecclesiastica dai Vescovi latini.
Nel 1919 Benedetto XV istituisce la diocesi di Lungro, in Calabria, e Pio XI nel 1937 quella di Piana degli Albanesi. Sempre nel 1937 il Monastero di Grottaferrata viene elevato a Esarcato.
Nei primi anni novanta del XX secolo viene emanato il Codice di Diritto Canonico per i riti orientali.
Nel 2010, regnando il papa teologo tedesco, tutte e tre le realtà greco-bizantine d’Italia si ritrovano “commissariate” da Vescovi latini.
Cos’altro c’è da latinizzare ?


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