martedì 28 luglio 2009

Riflessioni pre-conciliari

Avviato in www.romfea.gr un proficuo dibattito preconciliare

Ieromonaco Nilos Vatopedinos
Professore di Diritto Romano
Università della Magna Graecia
di Catanzaro, Italia
26 luglio 2009

La pubblicazione su www.romfea.gr. di osservazioni pubblicate il 24 luglio dal Metropolita di Johannesburg e Pretoria Serafim relative alla circolare ministeriale greca che prevede l’ammissione di donne nei licei ecclesiastici della Grecia, riavvia il dibattito su un tema indubbiamente meritevole di discussione in quest’epoca preconciliare ,in vista di un auspicabile pronunciamento in materia da parte del futuro Grande e Santo Concilio della Chiesa Ortodossa.
Interessato alla storia dei Concili, divengo sempre più sorpreso ed incerto innanzi alla procedura preconciliare di questi ultimi decenni, sempre più rigidamente ingessata, nella preparazione della nostra Santa Chiesa Ortodossa ad un Concilio Generale, che sembra ormai imminente.
Indubbiamente la prospettiva di potere realmente giungere, dopo tanto tempo, ad un Grande Concilio Generale della Chiesa Ortodossa ha imposto, fin dalle ormai lontane Conferenze di Rodi degli anni sessanta, la necessità di fissare la procedura da seguire nei lavori preparatori e di stabilire una lista dei temi da approfondire in vista della loro sottoposizione al futuro Grande Concilio.
Pur ineccepibile nella sua logica formulazione, la procedura fino adesso seguita non ha però facilitato un adeguato dibattito nell’ambito delle singole Chiese locali, neanche limitato alle facoltà teologiche ortodosse, neppure sui temi che sembrano unicamente destinati all’esame del futuro Concilio, in quanto riconosciuti di urgenza prioritaria da Conferenze Preconciliari.
Purtroppo, però, le vicende che hanno determinato negli ultimi 40 anni il lungo iter preconciliare riflettono difficoltà interecclesiali, (come, ad esempio, la vicenda “estone”, superate dalla fraterna buona volontà dei nostri Primati), che hanno, probabilmente, ostacolato la diffusione in tutta la Chiesa di quella coscienza preconciliare che stenta ancora a manifestarsi.
Di conseguenza appare evidente come, nonostante il lungo periodo presinodale e il lavoro compiuto dalle commissioni preparatorie emerga solo adesso la necessità di sottoporre al futuro Grande Concilio non soltanto quei temi sui quali lavorano da decenni commissioni preparatorie, con risultati spesso non facilmente accessibili a quanti vorrebbero seguirne i lavori (non risultano in genere pubblicati i dibattiti ma soltanto troppo rapidi comunicati che si limitano ad accennare ai risultati conseguiti).
La preparazione dell’imminente Concilio continua di conseguenza a rimanere di esclusiva competenza dei pur autorevoli rappresentanti delle Chiese autocefale senza accesso pratico alla documentazione preconciliare da parte di quanti, seguendone i lavori preparatori, potrebbero contribuire ad una maggiore diffusione della coscienza preconciliare irrinunciabile in un’epoca, come la nostra, caratterizzata dalla possibilità di discutere e valutare in più vasti ambiti quali temi siano effettivamente più avvertiti in ambito ecclesiale e, quindi, non eludibili dal prossimo Concilio, malgrado la lista dei temi stabiliti e approfonditi dalle Conferenze preconciliari.
Ma per venire alla situazione presente è noto come la procedura preconciliare sia stata ancora una volta riavviata dalla Conferenza dei Patriarchi, svoltasi felicemente al Fanar nell’ottobre dello scorso anno. Di conseguenza a Chambesy si è svolta a giugno di quest’anno una nuova conferenza presinodale che ha esaminato il problema della cosidetta “diaspora”, mentre ha rinviato la questione dell’autocefalia, dell’autonomia e dei dittici a successivo esame.
Ascoltando nella Chiesa Patriarcale di Chambesy l’omelia pronunciata a Pentecoste dal Metropolita di Pergamo, che ha sollecitato i delegati a procedere nell’esame dei temi da sottoporre all’imminente Concilio, sono rimasto colpito dalla saggia disponibilità del Patriarcato Ecumenico a riavviare i lavori prendendo atto come diverse Chiese ortodosse non ne condividano l’esegesi del can.28 di Calcedonia. In riferimento all’instaurazione del pluralismo giurisdizionale nella “diaspora” il Metropolita di Pergamo ha ricordato come negli anni 20 del secolo scorso il Patriarcato Ecumenico abbia richiamato l’attenzione delle altre Chiese locali sul canone 28 di Calcedonia che, secondo l’interpretazione da allora sostenuta dal Patriarcato Ecumenico, sottopone alla giurisdizione costantinopolitana tutte le comunità ortodosse site al di fuori dei confini territoriali delle Chiese autocefale.
Riaffermata dalla Conferenza Preconciliare di giugno, la necessità di stabilire Conferenze Episcopali regionali, destinate a predisporre la “diaspora” all’instaurazione, da parte del futuro Grande Concilio, dell’ordinamento canonico tradizionale, fondato sulla presenza in ogni città di un unico vescovo urbano, non può peraltro ritenersi ostativo all’instaurazione canonica di nuovi vescovati etnici, pure previsti dai Sacri Canoni, (come ad esempio dal già menzionato can..28 di Calcedonia), per quei motivi pastorali e missionari che hanno indotto i Santi Padri a promuovere l’evangelizzazione, (o l’adesione all’Ortodossia) dei barbari insediatisi nelle provincie dell’impero romano, mediante l’istituzione di vescovati etnici, autonomi rispetto ai vescovati urbani presenti nei medesimi territori provinciali.
Pare, pertanto, opportuno verificare se le motivazioni pastorali e missionarie che hanno indotto la Chiesa antica a istituire vescovati etnici, esenti dall’ordinamento ecclesiastico provinciale, non ne legittimino ancora oggi nuove istituzioni, pur destinate a trasformare nel tempo i Vescovati etnici in urbani, una volta maturata quella fusione dei discendenti degli immigrati con la popolazione locale, che pone termine all’emergenza pastorale che ne aveva determinato la creazione. Ancora oggi l’istituzione di vescovati etnici risulta, in effetti, pastoralmente indispensabile come nel caso del vasto fenomeno immigratorio che da un ventennio continua a spingere milioni di fedeli ortodossi a stabilirsi in paesi europei, prevalentemente eterodossi, nei quali le sussistenti strutture ecclesiastiche ortodosse non hanno la possibilità di assicurare né l’adeguata tutela della fede ortodossa e delle connesse tradizioni, né l’adeguata promozione dell’inserimento degli immigrati nel paese raggiunto, secondo quanto ho avuto modo di constatare personalmente in oltre un decennio di servizio pastorale nella Sacra Metropoli di Italia del Patriarcato Ecumenico.
Ho accennato a concreti problemi facilmente rilevabili oggi nella “diaspora” per evidenziare quanto sia importante, per diffondere davvero in tutta la Chiesa la coscienza preconciliare, la conoscenza in più vasti ambiti ecclesiali tanto degli argomenti esaminati dalle Conferenze preconciliari quanto di altri temi che, grazie ad un largo e approfondito dibattito, potranno eventualmente risultare meritevoli di essere esaminati dal futuro Concilio Generale della Chiesa Ortodossa (peraltro non vedo la necessità in riferimento al futuro Grande Concilio della Chiesa Ortodossa definirlo Concilio Panortodosso: estranea alla tradizione conciliare della Chiesa antica, la definizione suggerisce, nei non addetti ai lavori, l’errata idea di differenti Chiese Ortodosse ponendo di fatto in secondo piano l’unicità della Chiesa Ortodossa. Evidentemente si tratta di un errore confutato da tutto l’Episcopato Ortodosso ma resta, purtroppo, abbastanza diffuso tra i fedeli, come ho avuto modo di constatare tra gli immigrati.
Per questi motivi ritengo che le annotazioni del Metropolita di Johannesburg e Pretoria offrano un contributo di dimensione davvero ecumenica, in quanto rilevante per tutta la Chiesa Ortodossa..
Nel rispetto delle plausibili preoccupazioni manifestate dal Santo Sinodo della Chiesa di Grecia, in merito ad un immediato inserimento di ragazze nei licei ecclesiastici, il Metropolita Serafim prospetta la necessità di rintrodurre in Africa le diaconesse per l’amministrazione del Battesimo delle catecumene adulte e per promuovere maggiormente la diffusione della catechesi. Si tratta di esigenze prevedibilmente destinate a crescente e generale diffusione: appare pertanto opportuno l’intervento del Metropolita indirizzato a suscitare un dibattito volto a sottoporre la questione al futuro Grande Concilio.
Nel precisare quali siano i compiti che la Tradizione Ortodossa conferisce alle diaconesse, il futuro Grande Concilio non potrà ignorare il diffuso dibattito sulla legittimità dell’accesso delle donne alla chirotonia presbiterale o episcopale. L’introduzione del sacerdozio femminile nell’ambito di comunità cristiane con le quali la Chiesa Ortodossa continua a dialogare impedisce, infatti, al futuro Concilio Generale di tacere sulla questione in un’epoca nella quale i fedeli ortodossi assistono, con sempre maggiore frequenza, ad incontri ecumenici di chierici ortodossi con donne rivestite nelle rispettive comunità eterodosse del presbiterato o dell’episcopato.
Devo peraltro notare come, pur condividendo le puntuali affermazioni del Metropolita Serafim, sul ruolo determinante svolto dalle donne nell’ambito della Chiesa antica, (discepole di Cristo e degli apostoli, diaconesse e catechiste evangelizzatrici dell’ecumene), non ritengo plausibile l’imputazione dell’esclusione delle donne dal presbiterato al regime patriarcale vigente nell’antica Roma..
Anche a prescindere dall’evoluzione rilevabile nella condizione femminile nella società romana (dove la donna è stata ritenuta cosa solo se schiava, contrariamente a quanto troppo spesso si sente affermare, anche da alti ecclesiastici), resta evidente come già gli antichi romani non abbiano mai escluso le donne dal sacerdozio (basti ricordare l’alto rango riconosciuto fin dalla più alta antichità alle sacerdotesse di Vesta).
Mentre tra i pagani il sacerdozio femminile è dunque attestato e rispettato in tutto il vasto impero romano, in ambito cristiano il ruolo presbiterale o episcopale conferito alle donne in comunità ereticali appare fin dai primi secoli dichiarato dai Padri della Chiesa estraneo alle tradizioni apostoliche.
Come però fondatamente sostiene il Metropolita Serafim l’argomento risulta nel nostro odierno contesto storico meritevole di rinnovati approfondimenti teologici auspicabilmente non condizionati da moderne prospettive sociologiche che non aiutano a comprendere meglio il mondo antico. Tale pericolo mi sembra, infatti, riscontrabile nel rapido accostamento tra la chirotonia delle donne e l’abolizione della schiavitù: in entrambi i casi il Metropolita Serafim ne imputa la mancata realizzazione in ambito cristiano alla struttura patriarcale della società romana.
In realtà l’attitudine assunta dalla Chiesa antica, nei riguardi delle chirotonie femminili o dell’abolizione della schiavitù non mi pare affatto unificabile nella comune imputazione alla rigida struttura patriarcale della società romana. Mentre non ho notizia di Padri della Chiesa che abbiano ipotizzato il sacerdozio femminile, in merito alle posizioni riscontrabili nelle prime Chiese cristiane in attinenza alla schiavitù appare già eloquente l’affermazione crisostomica che gli Atti degli Apostoli non parlano di schiavi perché la Chiesa delle origini non ha recepito nel suo ambito la suddivisione degli uomini in liberi e schiavi. Pur non differenziando in Cristo l’uomo dalla donna e il libero dallo schiavo, l’antica Tradizione Ecclesiastica mentre rifiuta il sacerdozio femminile attribuisce, infatti, in ambito ecclesiale agli schiavi battezzati la stessa dignità di “fedele” conferita ai liberi.
Queste rapide osservazioni non intendono certo contrapporsi a quanto autorevolmente affermato dal Metropolita Serafim ma ad alimentare, piuttosto, un dibattito meritevole di approfondimento in quest’epoca preconciliare. Filialmente ringrazio, pertanto, il Metropolita per avere evidenziato emergenti esigenze pastorali che sollecitano un più ampio dibattito su di un tema che si profila oggi di effettiva rilevanza pastorale.
In merito al futuro Grande Concilio vorrei ancora evidenziare come già la normativa canonica calcedonese si apra con la riaffermazione della vigenza dei Sacri Canoni e dei Responsi Patristici, recepiti e sanciti dai Concili precedenti. Non si tratta, evidentemente, di una mera formalità. Mentre affermano la vigenza di tutta la disciplina canonica sancita dai concili precedenti i Santi Padri Calcedonesi rivisitano i canoni precedenti non solo per ratificarli ma anche per reinterpretarli e, ove l’hanno ritenuto opportuno, colmare lacune dell’ordinamento canonico con la produzione di nuovi canoni, elaborati in connessione con la disciplina precedente, per rispondere a nuove ineludibili esigenze pastorali.
Nell’esperienza bimillenaria della Santa Chiesa Ortodossa la “farmacia” che accoglie i medicinali (= canoni ecclesiastici) continua ad arricchirsi, allorché risulti pastoralmente opportuno la promulgazione di nuovi canoni da parte dei Padri Conciliari ispirati dallo Spirito Santo. Le nuove disposizioni sono volte ad integrare non ad abolire le precedenti, neppure quelle disapplicate da secoli.
Avviati verso il Grande Concilio è dunque legittimo porsi molti interrogativi. Prima di tutto potrà un futuro Concilio Generale non ribadire la vigenza dei Sacri Canoni e dei Pronunciamenti Patristici sanciti dai Concili Ecumenici, limitandosi a disciplinare unicamente questioni ritenute di maggiore urgenza?
Inoltre, molte antiche disposizioni canoniche riguardano, come è noto, i Vescovi: di recente il dialogo ortodosso-romanocattolico ha richiamato l’attenzione sul ruolo del protos in ambito ecumenico. Questioni di indubbia importanza continuano ad essere quelle attinenti alle elezioni episcopali e ai divieti di trasferimento dei vescovi.
Non è più necessario riassicurare effettiva vigenza ai canoni che prescrivono la netta distinzione tra patrimoni diocesani e privati dei vescovi? Non è forse oggi opportuna la reintroduzione in ogni eparchia di un economo per la diretta gestione del patrimonio ecclesiastico, sottoposto al controllo episcopale. Troppo spesso l’amministrazione dei beni ecclesiastici risulta svolta esclusivamente dal vescovo così sottratto ai suoi specifici compiti pastorali. Il danno non diventa ancora maggiore allorché, a torto o a ragione, si diffonde l’opinione che il vescovo amministri i patrimoni ecclesiastici come propri beni privati?
Antichi canoni emanati per ovviare a questi o ad altri inconvenienti possono non essere ribaditi dal futuro Grande Concilio, (con la conseguenza di essere definitivamente considerati disposizioni desuete del passato non più in vigore), o è necessario la ratifica sinodale che ne sancisca la ripristinata vigenza?
Ci avviamo forse, sia pure inconsapevolmente, ad una codificazione dei Sacri Canoni destinata in pratica a relegare la Tradizione canonica della Chiesa Ortodossa nell’ambito della storia delle fonti canoniche, come avviene in ambito romano-cattolico?
Questi e altri temi quali, ad esempio, la partecipazione al Concilio di vescovi soltanto residenziali, (preposti cioè al gregge che effettivamente costituisce la loro rispettiva Chiesa locale), vanno nell’odierna epoca preconciliare rivisitati non soltanto in Facoltà teologiche o in istituzioni diocesane ma anche in forums, blogs con qualsiasi mezzo utile ad assicurare la diffusa preparazione in tutta la Chiesa al futuro Grande e Santo Concilio che, guidato dalla Grazia dello Spirito Santo, sarà in effettiva connessione con i precedenti Concili Generali della Chiesa Ortodossa.

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